RestauRane
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«Mel, piccola villa e gran bordel» era l’arguto detto che nei primi anni del 1600 si ripeteva frequentemente nei paesi della Val Belluna.
In quel tempo vivevano a Mel diverse famiglie dell’aristocrazia veneziana, proprietarie di terre e di case. Le relazioni tra queste facoltose famiglie inizialmente erano cordiali, ma col passar del tempo divennero sempre più fredde e difficili, tanto da essere causa di disordini.
I litigi ad un certo punto si acutizzarono e si polarizzarono specialmente fra i due casati più influenti: i Gaio, che abitavano in piazza, ed i Zorzi, che risiedevano in fondo alla via Paradiso.
La famiglia Gaio, approfittando della protezione del feudatario, provocava e tiranneggiava un po’ tutti, ma particolarmente i signori Zorzi. I dispetti e gli alterchi fra le due famiglie erano diventati così frequenti e così pericolosi che il Vicario veneziano dovette intervenire, emettendo un’ordinanza che proibiva ai Gaio di oltrepassare la contrada per andare in fondo al paese ed agli Zorzi di recarsi in piazza, temendo che il solo incontro potesse dar occasione a mischie furibonde e fatti di sangue. La popolazione ormai era divisa in partiti, che spesso venivano alle mani per le vie e sulla piazza maggiore del paese.,
Una sera infatti in uno di questi tafferugli, sotto i portici dell’attuale palazzo comunale, venne assassinato con un colpo di archibugio il chirurgo Zorzi.
Un religioso appartenente alla nobile famiglia Conti, padre Egidio da Mello, dei Minori Osservanti, trovandosi nel 1664 per il suo ministero a Roma e venuto a conoscenza di tali sanguinose discordie che funestavano la sua piccola patria, scrisse più volte ai suoi concittadini per raccomandare di desistere dalle inimicizie, promettendo in premio un santo e preziosissimo dono.
Ottenuta assicurazione dalle due fazioni in lotta che finalmente, sul sangue della vittima, avrebbero composto ogni dissidio, domandò ed ottenne dal Pontefice Alessandro VII le ossa appartenute al corpo del santo martire Fausto, trovato in quei giorni negli scavi fatti nelle catacombe di S. Priscilla, per portarle a Mel, quale ramoscello d’ulivo fra le parti in lotta. Le ossa del Santo arrivarono a Mel il 12 ottobre 1664 e furono ricevute dai rappresentanti della Magnifica Comunità Zumellese, dai Procuratori della chiesa di Mel e da tutto il popolo osannante.
Le nobili famiglie in lotta, sulle ossa del martire, giurarono di deporre ogni odio e vendetta e di vivere finalmente in pace.
Dicono le cronache che grande fu l’esultanza del popolo e che le grandi solennità durarono tre giorni. Da quel 12 ottobre 1664 questa ricorrenza fu sempre festeggiata, tutt’ora si ripete e credo continuerà anche in avvenire, in buona e soddisfacente tranquillità ed armonia.
Testo di Giovanni “Nino” Sartori ed accompagnato da una incisione di Vico Calabrò del 1981, in occasione del decimo anno di attività della Corale Zumellese.
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"Premiata sartoria con scuola di taglio" tratto da “Artigiani ieri n.3” di Flavio Tremea
Marco approda a Lentiai a fine ottobre 1918 con il Genio Militare.
Non essendoci macerie da rimuovere o strade o ponti da ricostruire con urgenza, i giovani genieri possono riposarsi qualche giorno nella nostra terra ospitale.
Fra la gente in festa festa deve esserci anche Maria Menel, perchè l’occhio rapace di un geniere l’adocchia subito e l’aggancia senza tanti preamboli.
Questo giovanotto impertinente è naturalmente Marco Cavacece, il quale, dismessa la divisa militare e terminato il servizio alla patria, torna qualche giorno a salutare i genitori a Piedimonte San Germano, ameno villaggio della Ciociaria, e poi riprende la strada di Lentiai. Non tornerà più indietro.
Frequenta a Roma una scuola di sarto da uomo e da donna e consegue il diploma di professore e l’abilitazione all’insegnamento con facoltà di rilasciare diplomi.
Diventa anche direttore dell’Artetecnica, la celebre Accademia internazionale di taglio di Bologna, per la quale prepara numerosi allievi.
Marco è anche un grande sportivo: gioca a bocce e a tamburello e fa pure il trainer dei calciatori lentiaiesi. Ma la sua vera passione è il ciclismo.
Nel secondo dopoguerra fiorisce la mania della bicicletta da corsa. Due suoi figli, Titta e Sauro, partecipano a numerose corse dilettantistiche locali.Titta in modo particolare si mette in bella evidenza, vincendo parecchie corse e suonando tanti avversari di spicco.
Titta diventerà sì un campione, ma del forno!
Dopo cinquant’anni di intenso lavoro e di completa dedizione al mestiere, chiude la sartoria nel 1970. Ha tanta voglia di trascorrere molti anni tranquilli in compagnia dei nipotini.
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Tratto da “Mel nel Settecento - Aspetti sociali e movimento demografico nella parrocchia di S. Maria Annunziata” di Paola Brunello.
Le Anagrafi Veneziane a partire dal 1766 offrono dati utili per conoscere l’attività economica della popolazione, le sue professioni e i più importanti “edifizi” per il lavoro.
Nell’Archivio Comunale di Mel si è però ritrovato un elenco del 1755 (perciò precedente la prima anagrafe di 11 anni), riportante i nomi di tutti coloro che dovevano pagare la tansa, poichè si esercitavano nelle “Arti liberali e meccaniche” nell’intera giurisdizione. Attraverso tale fonte si possono conoscere alcune attività svolte dalla popolazione zumellese.
I “lavoratori” di Mel appaiono infatti così divisi: (vedi foto)
Nell’elenco non vengono purtroppo annotati i “lavoranti di campagna”, in quanto non soggetti alla tansa. Tale distinzione tra persone contribuenti e non contribuenti tansa nella giurisdizione di Mel viene ribadita in un documento conservato nell’Archivio di Stato di Venezia, riferito al periodo 1766-1770.
Coloro che versano la tansa sono complessivamente 212, cioè 16 “professori di arti liberali”, 36 “mercanti, negozianti loro aggiunti e scritturali” e 160 “artisti, manifattori, loro lavoranti e garzoni”.
Coloro invece che non contribuiscono al pagamento della tansa sono 1916, ossia 1887 “lavoratori di campagna” e 29 “carattieri, mulattieri e cavallanti”.
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"Osteria Pezzin - Piazza Affari" tratto da “Artigiani Ieri n.1” di Flavio Tremea.
Elettricista alle dipendenze della Società SADE, Cencio è amico e consigliere di tutti.
Approdo quotidiano dell’intera contrada, casa Pezzin viene acquistata dal padre Nicola nel 1911 con le palanche guadagnate in Germania e gelosamente custodite nel paion (materasso) dalla sorella Genoveffa.
Lo stabile, per la sua posizione e per il suo commercio, costa al buon Nicola un occhio della testa: novemila lire!
Ma in poco tempo è ripagato di tanti sacrifici e il crocevia di Molin Novo porta ormai il suo nome.
Da Pezzin in effetti si concentra tutto il movimento del paese. Qui c’è la fermata della corriera Zasio; qui è sistemata l’unica cassetta postale della frazione; qui il postino Amedeo smista e rileva la posta; qui c’è la pubblica fontana, a cui tutti attingono, ivi compreso il bestiame; qui sostano i passanti delle Ville e i forestieri per ristorarsi con un eccellente quartino di bianco; qui si intrecciano gli affari e si brinda agli affari conclusi; qui i nostri padri accendono bibliche sbronze, prerogativa irrinunciabile dei veri padroni di casa.
Per le nonne c’è perfino il Capitel, approccio feriale con Domine Dio e la Madonna della Pissota, la cui protezione è costantemente invocata.
Da Pezzin c’è anche la possibilità di svagarsi con il gioco delle bocce, a cui si cimentano in verità soltanto i più muscolosi, essendo le bocce in legno e delle dimensioni del melone; ai meno dotati è invece riservato il tifo e l’applauso.
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Tratto dal libro “Saluti da Mel” di Paola Brunello e Dario Tonet.
Il castello di Zumelle, Castrum Zumellarum, il baluardo della contea Zumellese, nei secoli conteso e strenuamente difeso.
È il simbolo storico degli zumellesi, della loro identità costruita nei secoli, che ha visto equilibri di forze e passaggi di potere fra le principali dominazioni.
La tradizione popolare vuole assegnare la sua fondazione, su una precedente fortezza, nel VI secolo ai tempi di Amalasunta figlia di Teodorico e alla volontà di due innamorati, Genserico ed Eudosia, da cui presto nacquero due gemelli, Goffredo e Iusprando che diverrà Signore di Zumelle.
Oggi appare nella sua veste trecentesca, ridotta se si pensa al suo periodo di massimo splendore nel XII secolo, quando fu in possesso Caminese.
Arrivò a contare quattro cerchia di mura e due o tre fossati. Le successive lotte per il dominio sul territorio portarono pesanti conseguenze e gravi distruzioni, cui seguì una drastica riduzione della precedente struttura.
Il Leone di San Marco, la Serenissima Repubblica di Venezia, ne ebbe rispetto e lo conservò.
Nel 1422, con l’arrivo a Mel dei nobili veneziani Zorzi, il maniero abbandonò le armi e la funzione militare.
Nel secolo scorso sono stati vari gli interventi di restauro e oggi il Castello di Zumelle è visitabile in tutto il suo splendore: le mura merlate, il fossato, il ponte levatoio, il cortile interno, la torre, la chiesa di San Lorenzo, il pozzo e i vari saloni.
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Tratto da “Artigiani Ieri n.3” di Flavio Tremea
La Latteria di Lentiai vanta un fondatore illustre: Toni Mat ossia Antonio Piccolotto, figlio di Basilio il Vecchio e di Scolastica Dal Longo di Belluno, nato a Lentiai il giorno nevoso di S. Antonio Abate, patrono di Bardies, degli animali domestici e degli ammalati di ergotismo (fuoco di S. Antonio).
Quali migliori auspici dunque per un anonimo Piccolotto?
Le cronache dell’800 riferiscono infatti che a venticinque anni egli è già il più facoltoso possidente civile del Comune, cioè il più ricco borghese delle nostre contrade.
Possiede al riguardo diversi immobili e gestisce numerose attività produttive e commerciali, che via via trasferisce ai figli.
Personaggio irrequieto, pittoresco, gioviale, imprevedibile, intrattiene rapporti cordiali con tutti e ha sempre battute e risate a portata di mano; è, in una parola, un vero mattacchione.
Soffre tremendamente di prurito affaristico e prova goduria pazza nel rischiare più del dovuto. I risultati gli danno quasi sempre ragione, ma la gente non può esimersi dal sommare tutte queste speciali virtù e dall’attribuirgli infine l’altisonante soprannome di Mat!
Verso il 1880 Toni medita di avviare una nuova attività produttiva e nel 1884 la sua meditazione si concretizza: nasce la prima Latteria per la lavorazione del latte prodotto in paese e viene sistemata in uno stabile di sua proprietà alla periferia di Lentiai, dove più tardi abiteranno le famiglie Corrent e Venturin (Toni Bel).
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USI E COSTUMI DI UN TEMPO - UN RACCONTO DI «NANI BARBA»
Comiotto Giovanni Silvestro, conosciuto da tutti per «Nani Barba», arguto e saggio vegliardo di Carve, mi spiegava con calore e piacevole brio che, fino ai primi del Novecento, lo sposo, in occasione del matrimonio, doveva regalare al suocero e alla sposa un paio di scarpe.
Per la cerimonia nuziale l’uomo portava possibilmente un vestito blu o scuro, oppure pantaloni lunghi di color scuro o grigio (braghese o braghe) con un gilè dello stesso colore dei pantaloni.
La camicia che indossava, era molto ampia e lunga, con maniche a sbuffo strette ai polsi. Il colletto era a fascetta e tante camice venivano abbellite con piccole pieghe sul petto.
Per i più ricchi (i bacani) ai lati della abbottonatura, la camicia da sposo aveva pizzi elegantemente lavorati ad uncinetto. Mi diceva che anche gli uomini e così le donne, fino alla fine dell’ottocento, non portavano mutande e perciò la camicia ne doveva fare le funzioni. Sopra la camicia, i più poveri mettevano solo il «crosat» (gilè) di lana o mezzalana, dello stesso colore delle «braghe».
Questo indumento aveva l’abbottonatura a doppio petto e nel taschino a sinistra, che l’aveva, metteva l’orologio, che veniva fissato ad una delle asole con una catenina d’argento.
La giacca (jacheta) era un capo piuttosto raro a quei tempi e pochi la possedevano. Quando un giovane doveva sposarsi, di sovente, la chiedeva in prestito a qualche parente o amico; Infatti, Nani, facendo una lunga pausa e riprendendo con un sospiro pieno di tristezza, affermava che la giacca allora era considerata un lusso. Era per solito di lana o mista con cotone, come i pantaloni; aveva maniche alquanto ampie che terminavano strette ai polsi ed era prevalentemente di color grigio scuro o blu.
Questo simpatico vecchio alpino mi spiegava con meticolosa precisione che la sposa teneva in testa un fazzoletto di seta a fiori, ma prima di entrare in chiesa per la cerimonia, la madrina glielo toglieva e glielo metteva uno di «tulle» tutto bianco, lo sposo invece sostituiva una berretta color giallo o grigio, se l’aveva, con un cappello nero a tesa larga.
A quel tempo era molto raro che lo sposo potesse comperarsi un paio di scarpe di cuoio e se era così fortunato da venirne in possesso, queste gli duravano una vita intera, poiché le calzava soltanto nei giorni festivi e nelle grandi occasioni.
Da quanto avete sentito, il potersi vestire con decoro per la cerimonia nuziale, spesso, diventava un vero e grosso problema.
Nani mi raccontava di essere stato veramente fortunato, perché, quando nell'aprile del 1923 si sposò, poté indossare il vestito che aveva ricevuto in un pacco di vestiario nel novembre 1918, come dono del Governo Italiano, perché ex combattente.
Articolo scritto da Nino Sartori nel 1982.